La dimensione contemplativa della vita
Se si toglie dalla vita ogni elemento contemplativo, questa finisce col soffrire di iperattività mortale. L’uomo soffoca nel proprio stesso fare. Una rivitalizzazione della vita contemplativa è necessaria per aprire spazi di respiro. Lo spirito nasce da un sovrappiù di tempo, da un otium, da una lentezza del respiro […]. Una democratizzazione dell’otium deve succedere alla democratizzazione del lavoro perché questo non degeneri in schiavitù di tutti.
Così il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han conclude il saggio dal seducente titolo Il profumo del tempo. Saggio filosofico sull’arte di soffermarsi sulle cose, pubblicato in Germania nel 2009. In un mondo «colpito da una sindrome generale di dispnea» occorre ritrovare spazi di respiro perché solo così si potrà ritrovare anche uno spirito: giocando sul doppio senso della parola greca pneuma (respiro/soffio e spirito) il filosofo afferma che «chi perde il soffi o perde anche lo spirito».
La crisi spirituale contemporanea riguarda essenzialmente il tempo, sicché più che di tempo di crisi dovremmo parlare di crisi del tempo, di un rapporto con il tempo che, nella nostra ipermodernità, si nutre di accelerazione, atomizzazione, produttività. L’accelerazione tecnica, delle trasformazioni sociali, del ritmo di vita, è constatazione quotidiana di ciascuno di noi: e l’accelerazione produce anche l’annientamento dello spazio, la scomparsa delle distanze, della geografia.
«Non ho tempo» è il nostro quotidiano ritornello, ma quando non c’è più spazio per il tempo anche lo spazio non è più vissuto né goduto e diviene un luogo di transito, un non-luogo, un luogo non abitato. «Il mondo intero ci è offerto in un secondo o con qualche ora di aereo, e noi non abbiamo mai il tempo di goderne». L’atomizzazione del tempo fa sì che non abbiamo più a che fare con il tempo, ma con tempi, successivi, incalzanti, che non costruiscono una storia ma che si sovrappongono l’uno dopo l’altro sostituendosi l’uno all’altro e annullandosi l’uno con l’altro.
Corriamo da un presente a un altro, non conosciamo più soglie e passaggi, intervalli e pause, attese e sedimentazioni. La tecnologia che regola il tempo e domina le nostre vite tende a creare una simultaneità e una prossimità costante rendendo tutto disponibile immediatamente, qui e ora, abolendo i «tempi morti» delle attese, facendo scomparire spazi e tempi intermedi sicché «vi sono soltanto due stati: il niente e il presente».
Per quell’essere temporale che è l’uomo, frammentazione e disintegrazione del tempo diventano anche frammentazione dei processi di individuazione e disintegrazione delle identità personali. Viviamo vite depresse in società depresse. La vita sotto il segno della depressione è la vita in cui uno sente di non avere più tempo perché il tempo che corre a ritmi sempre più veloci lo lascia irrimediabilmente indietro facendone uno scarto, e in cui sente di non avere più un luogo da abitare, in cui trovarsi al sicuro, in cui dimorare, riposare e rifugiarsi, sicché si sente ovunque braccato.
Il problema è che oggi questa descrizione della depressione si attaglia perfettamente […] alla vita quotidiana di decine di milioni di persone che non si considerano affatto depresse. Ma vivono in un mondo in cui sembra che il tempo acceleri, perché l’economia le minaccia, perché la competizione non permette di ‘prendere tempo’. E simultaneamente lo spazio si riduce: tutti i posti del mondo tendono ad assomigliarsi.
La produttività ribadisce il carattere meramente quantitativo dell’esperienza temporale che oggi è possibile fare. L’imperativo del lavoro e del fare, l’ipercinesia della vita quotidiana, quella che Byung-Chul Han chiama «l’assolutizzazione della vita activa», tolgono ogni dimensione contemplativa al vivere umano e così lo disumanizzano rendendolo agitato, disordinato, senza direzione, ansioso, affannato, stressato. Siamo disorientati.
Per orientarsi occorre fermarsi, scrutare l’orizzonte, guardarsi intorno: occorre tempo e quiete. Il multitasking è una cifra di questo modello temporale sottomesso all’imperativo della produttività a ogni costo, modello che produce, a sua volta, omologazione, massificazione e personalizzazione. Questa distorsione del rapporto con il tempo si manifesta nell’imperativo del consumo che è l’esatto contrario della contemplazione.
Nella società dei consumi si disimpara ad attardarsi. Gli oggetti di consumo non permettono minimamente che ci si attardi nella contemplazione. Essi sono consumati e utilizzati il più in fretta possibile per poter far posto a nuovi bisogni. Attardarsi in uno stato contemplativo presuppone degli oggetti che durino. Ma l’obbligo del consumo abolisce la durata.
Solo con il coraggio di soffermarci sulle cose possiamo scoprirne la durata, possiamo legare esterno e interno, solo pensando e dando tempo al pensare e al riflettere possiamo fare unità tra passato e presente. Solo con un atteggiamento ascetico verso il mondo e le cose queste possono consegnarci la loro bellezza. L’esperienza della durata è contemplativa. Lo esprime bene Peter Handke: «O durata, mia quiete! O durata, mia sosta!».
Il consumo si oppone anche a quell’esperienza che sembra sempre più rara, l’esperienza dello stupore. L’uomo di sabbia di cui parla la psicoanalista Catherine Ternynck per designare l’inconsistenza dell’individuo contemporaneo sgretolato nella sua soggettività, sembra «aver perso la capacità di stupirsi». Stanchezza, nervosismo, agitazione, ansia, preoccupazione, demotivazione, senso di impotenza: queste, e altre simili, sono le parole che descrivono lo stato d’animo dell’uomo contemporaneo a cui l’esperienza dello stupore appare ormai preclusa. Di cosa stupirsi quando il mondo è a portata di click?
Come stupirsi se non ci si sofferma sulle cose, se non si lascia loro il tempo di manifestarsi a noi e se non ci prendiamo noi il tempo per immergerci in esse con la lentezza e la lunghezza dello sguardo che ascolta e si lascia illuminare dalle cose stesse? Lo sguardo lungo e contemplativo, a cui solo si dischiudono gli uomini e le cose, è sempre quello in cui l’impulso verso l’oggetto è spezzato, riflesso. La contemplazione senza violenza […] impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza.
Dunque: recuperare la dimensione contemplativa dell’esistenza, senza la quale il vivere perde sapore e profumo. Perde gusto. Ma per ritrovare un rapporto umanizzante con il tempo occorre misurarsi sulla capacità di solitudine, poiché «la solitudine riguarda la vita contemplativa», e occorre interrogarsi su quella dimensione dell’otium che da sempre è al cuore di una vita spirituale.
Luciano Manicardi da retesicomoro.it