Conosciamo San Paolo/2

Conosciamo San Paolo/2

Le opere artistiche di Michelangelo Merisi detto Caravaggio (1571-1610) rimangono ancora oggi affascinanti per il loro coinvolgimento personale e gli spunti di riflessione che suscitano nello spettatore. Evidenziare nella pittura del nostro artista primariamente gli aspetti tecnici relegando in secondo piano la sua poetica, si rischierebbe di offrire una lettura riduttiva delle sue opere e del suo genio artistico. Invece è proprio la sua poetica, emergente dalla sua personalità ricca, poliedrica e complessa, che ha reso affascinanti le sue opere.

Scrive Stefano Zuffi: «Per vedere le opere di Caravaggio si fa spesso la fila. Ma quando arriviamo davanti a queste tele, faccia a faccia, la folla scompare. Siamo soli, noi e lui, qui e adesso, davanti al mistero della vita e del destino, davanti alla bellezza dell’arte, davanti alla vertigine del divino, davanti alla miseria e all’eternità dell’uomo». E, a ragione, scriveva Renato Guttuso: «La verità di una grande passione creativa si misura dalla sua durata, dalla sua capacità di riproporsi come fonte d’acqua viva alle ideologie, alle nuove convinzioni, ai nuovi gusti: mostrare una faccia nuova, mai vista prima».

Cenni biografici e stile artistico

Michelangelo Merisi nacque a Milano il 29 settembre del 1571, da una famiglia abbastanza agiata della piccola borghesia milanese del tempo. Per sfuggire alla peste, nel 1577 la famiglia si trasferì a Caravaggio, cittadina a breve distanza da Treviglio nel territorio tra Bergamo e Milano. Nel 1584 il tredicenne Michelangelo rientra a Milano per iniziare il suo apprendistato presso il pittore Simone Peterzano, di origine bergamasche, formatosi a Venezia alla scuola di Tiziano.

In questi anni di apprendistato, il nostro giovanissimo artista fece esperienze di formazione anche in altri centri della Lombardia (Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi) e a Venezia, dove apprese i principi della pittura naturalistica: gli effetti delle luci e delle ombre, i toni grigi, la pittura diretta senza il disegno preliminare e dal modello vivo, l’artificio prospettivo, l’arte del ritratto, lo studio della fisiognomica o dei moti dell’animo

Tra il 1591 e il 1592 il ventenne Caravaggio si trasferisce a Roma, nel 1605 un breve periodo a Genova, nel 1606 a Napoli, nel 1608 a Malta, tra il 1608 e il 1610 in Sicilia a Siracusa, Messina e Palermo. Dovunque soggiorna realizza opere come tracce indelebili del suo passaggio: per es. a Roma (la Vocazione di S. Matteo e il Martirio di S. Matteo, la Conversione di San Paolo e il Martirio di San Pietro, e altro), a Siracusa (il Seppellimento di Santa Lucia), a Messina (la Risurrezione di Lazzaro e l’Adorazione dei pastori), a Palermo (la Natività con i santi Lorenzo e Francesco).

Ritornato a Napoli – siamo sempre nel 1610 –, dopo alcuni mesi si imbarca per Roma, sbarcato sul litorale tirreno nei pressi di Porto Ercole, tappa intermedia per l’Urbe, si ammala gravemente e muore, nella solitudine, il 18 luglio.

Dopo questi veloci cenni biografici, cosa dire della personalità di Caravaggio? Egli visse in una società violenta e condusse egli stesso una vita disordinata e violenta.

Pur essendo un uomo religioso che alcune volte partecipava alla vita sacramentale della chiesa, tuttavia fu una persona inquieta e irrequieta, insofferente di ogni costrizione, anticonformista, stravagante, ambiziosa e intollerante dei successi altrui; una persona facile all’ira, che sovente ebbe problemi con la giustizia, che conobbe il carcere, che fu spesso protagonista di aggressioni e fatti di sangue, arrivando perfino ad essere condannato a morte per omicidio. Insomma, condusse una “vita spericolata”. Eppure questa personalità, così complessa e complicata, espresse un grande talento artistico dalle seguenti peculiarità:

(a) alla scuola dei maestri d’arte bresciani e bergamaschi scoprì la “forma delle ombre” in cui la luce, esterna ai soggetti, decideva con l’ombra della loro esistenza, del loro modo di essere;

(b) nella sua pittura, fatta di luce e di ombre, fece emergere la realtà drammatica dell’uomo, così com’è, con le sue graziosità e gentilezze, e con le sue bruttezze e volgarità: infatti i suoi modelli spesso sono presi dalla strada, sono gente comune, popolana e rozza – forse per questo alcune sue opere furono rifiutate;

(c) la sua fu una pittura che, imitando il mondo sensibile, nello stesso tempo evoca e comunica sensi simbolici e metaforici riguardanti il senso della vita e del mondo, la dimensione religiosa dell’esistenza e la natura come manifestazione del divino;

(d) il suo genio creativo e la sua singolare sensibilità si nutrirono delle veementi predicazioni di S. Carlo Borromeo e delle “suggestioni visive” degli Esercizi Spirituali di San Ignazio di Loyola il quale invitava a ricreare nella mente i momenti, i luoghi e le emozioni relativi agli episodi evangelici della vita di Cristo, al fine di riviverli con tutto se stessi: per questo nei dipinti del nostro artista la scena che si raffigura è sempre portata al “vertice dell’azione” e collocata in primo piano per accentuare il “contatto” con lo spettatore e il suo “coinvolgimento”.

“Rinascere dall’Alto”. Per una lettura teologica

Una domanda, per introdurci. È pensabile una lettura teologica di un’opera d’arte realizzata da un artista, come il Caravaggio, la cui vita fu così spesso “spericolata”? In un’ottica di fede dobbiamo ammettere che i nostri pensieri non sono i pensieri di Dio, che le nostre vie non sono le sue vie (Is 55,8), e che Lui sa scrivere sulle “righe storte” degli uomini. Perciò, inchinandoci davanti a Lui, sapiente Artefice del mondo (Sap 8,6), che con il suo Spirito soffia dove vuole (Gv 3,8), proviamo a leggere l’opera del nostro artista come opera teologica, cogliendo cioè il substrato biblico-teologico-spirituale che la sostiene.

Nel 1600, anno giubilare, Caravaggio riceve l’incarico di dipingere la Conversione di San Paolo e il Martirio di San Pietro, per la cappella di mons. Tiberio Cerasi (tesoriere di papa Clemente VIII) nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma dei frati agostiniani. L’opera è portata a termine nel 1601, dopo che le prime versioni di entrambi i dipinti furono rifiutati dai committenti e acquistati dal card. Sannesio. Gli storici dell’arte discutono su quali furono le vere ragioni di tale rifiuto.

La prima versione, quella detta della collezione Odescalchi, realizzata su tavola di cipresso, raffigura Paolo – uomo maturo, barbuto e stempiato – caduto da cavallo, con la bocca spalancata in un grido di terrore, le mani sul viso come se fosse accecato dalla luce (At 9,3.8) e per proteggersi dalla vista del Signore, il quale, trattenuto da un angelo, sembra gettarsi con impeto su di lui e chiederli «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4), e con il gesto delle mani invitarlo ad alzarsi (At 9,6).

Scrive S. Agostino: «Con la voce di rimprovero lo fece cadere e con la destra della misericordia lo sollevò» (Esp. sul Sal 90, D 2,5). Il soldato che accompagna Paolo reagisce alzando lo scudo e la lancia come per difendersi da un pericolo di cui non sa rendersi conto, come lo esprime il suo sguardo spento e inebetito. Il cavallo “sente” l’evento e s’imbizzarrisce schiumando. È una scena tutta movimentata.

Nella seconda versione, realizzata su tela, che troviamo in Santa Maria del Popolo, la scena è più calma ed è, in parte, più aderente al testo degli Atti degli Apostoli.

Intanto una particolarità che ci allontana dalla lettera della pagina biblica e ci offre un “tocco” caravaggesco di popolanità e di quotidianità: il nostro artista sembra collocare l’evento di Damasco in una stalla, come lo mostra la presenza di quell’uomo che, più che un destriero di Saulo, sembra uno stalliere che bada a frenare il cavallo; quell’uomo è nell’ombra, come a dire: è ignaro di quanto sta accadendo, è in quella gretta indifferenza che lo rende totalmente estraneo all’evento; è, in fondo, l’umanità che ha bisogno di essere illuminata dalla Luce del Risorto per “uscire” dalla sua oscurità. Ed è proprio questa la missione cui Paolo sarà chiamato (At 26,18).

Il cavallo, che sembra dominare la scena con la sua enorme stazza, non è più imbizzarrito, si è calmato, ed è attento, con quell’alzare la zampa destra, a non calpestare il suo cavaliere Saulo. Il cavallo – non menzionato né dagli Atti degli Apostoli né da Paolo nelle sue lettere, ma è frutto dell’immaginario della tradizione iconografica – sta con tutta la sua imponenza di fronte a Saulo, che è sdraiato a terra sulla schiena. Qui il cavallo sembra essere – in consonanza con la fede biblica (Sal 32,9; Zc 10,5; 12,4) – cifra simbolica di potenza, forza, altezzosità, orgoglio, arroganza e stoltezza.

Nell’antichità, e anche ai tempi di Caravaggio, il cavallo era l’animale per i signori della guerra. A cavallo ci andavano i nobili, i ricchi e i borghesi, non la gente normale, né tantomeno i poveri. E da questa prospettiva, il cavallo, non più imbizzarrito e ormai calmo, sembra fare da “specchio” a Saulo caduto a terra: gli “riflette” il suo essere stato spogliato da ogni forma di sicurezza e di potere, la sua umiliazione e il suo abbassamento, il suo quietarsi fino all’abbandono fiducioso. E tutto questo avviene per quella Luce “di mezzogiorno” (At 22,6; 26,12), luce dorata e morbida.

È la Luce del Signore Risorto, la Luce della Grazia che illumina Saulo, lo rende “piccolo” (“Paulus”) e debole, lo chiama, lo interpella e gli trasforma l’esistenza. Qui Caravaggio è geniale nel fermare il “fotogramma” del kairòs, ovvero l’istante propizio dell’azione sovrabbondante della Grazia che agisce nella persona di Saulo: la Grazia che gratuitamente scioglie i cuori induriti, che usa misericordia, che perdona, salva, rinnova l’esistenza e chiama ad una missione (Gal 1,15; 1Tm 1,13-14).

E infatti, questo istante è qui raffigurato come una illuminazione battesimale, come una nuova nascita per Saulo/Paolo: egli ha il volto giovane di un trentenne, ha le braccia aperte, disarmate (la spada è da una parte e l’elmo dall’altra, ormai inutili ferri…), alzate e protese come un bambino verso il Signore, abbandonate a Lui, pronte a lasciarsi rialzare da Lui, a morire e risorgere in Lui.

È veramente l’istante propizio della rinascita spirituale di Paolo. Forse non è un caso che la memoria liturgica della “Conversione di San Paolo”, già presente in Italia nel sec. VIII ed entrata nel calendario liturgico Romano sul finire del sec. X, si festeggia il 25 gennaio, esattamente – lo ricordava Jacopo da Varazze già nel XIII secolo – un mese dopo la Natività di Gesù.

Forse, non è del tutto strana l’idea di Caravaggio di collocare in una stalla la scena dell’evento di Damasco: evento generativo di sapiente rinascita, vissuto alla luce della Natività di Gesù.